L’irrazionale dalla poesia all’intellettuale

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Il movimento romantico nasce in Germania nel 1789 con i fratelli Schlegel nella scuola di Jena. Da qui si diffonde in tutta Europa e giunge anche in Italia, ma solo nel 1816. Nonostante ciò, fenomeni culturali riconducibili a tendenze romantiche erano già stati presente ancor prima di quella data. Il termine romanticismo può essere utilizzato con due significati differenti: esso può indicare un movimento, in senso stretto, e quindi una corrente di intellettuali accomunati da ideali comuni e ispirati dalla stessa poetica che si concretizza in delle vere e proprie scuole. In senso più lato può rappresentare una categoria storica, indicando cosi un intero periodo nelle sue manifestazione.

Questa distinzione permette di considerare romantici anche quegli autori che non fecero mai parte di alcun movimento, come nel caso di Leopardi. Questa corrente investì tutti i campi dalla letteratura alla musica, e riuscì ad influenzare persino le tendenze opposte. Proprio per la sua vastità è impossibile riassumerlo, ma si possono solo individuare dei denominatori comuni; il primo che balza fuori dalla cultura romantica è il trionfo delle tematiche negative: il dolore, il disgusto, la malinconia, l’inquietudine, il vagheggiamento della morte, il mistero, l’orrore. Queste tematiche non fanno altro che rappresentare la delusione, ma anche i sensi di colpa, collettivi generati della rivoluzione francese, ma anche di quella industriale. Quest’ultima infatti con l’avvento delle macchine non solo aveva strappato il lavoro agli operai, ma stava anche distruggendo la natura che veniva ancora considerata sacra. Queste tematiche erano già presenti nello Sturm und Drang ma adesso si accentuavano ancor di più segnando un netto distacco dal razionalismo illuministico. Il romanticismo nasce infatti come indagine dell’irrazionale, di ciò che la volontà non può controllare, un’indagine non solo delle passioni e degli sconvolgimenti dell’animo, ma anche di ciò che sfugge alla razionalità umana come le allucinazioni, la follia umana. La produzione che ne verrà fuori non sarà quindi una semplice opera estremamente razionale, bensì il trionfo delle passioni e dei sentimenti provenienti dall’intimo più profondo. Questo è quello che Percy B. shelley afferma nella sua opera “la difesa della poesia”: «… la poesia non è, come il raziocinio, facoltà da poter essere esercitata secondo le determinazioni della volontà. Non può dirsi: “Io comporrò poesia”. Né i più grandi poeti possono dirlo; poiché la mente creando è come un carbone semispento, cui certe invisibili influenze, come vento incostante, svegliano a un passeggero splendore; ma il loro potere emana dall’intimo, come il colore d’un fiore impallidisce e muta durante il suo sviluppo; e le parti coscienti del nostro spirito non sanno profetizzar né il suo avvicinarsi né il suo dipartire». Per quanto riguarda la figura dell’intellettuale, questo non vive più in una dimensione separata in cui non arrivano gli echi del mondo, anche se sceglie di appartarsi egli è sempre immerso nella realtà. In sistemi sociali del passato l’intellettuale faceva parte dei ceti egemoni come il clero o la nobiltà, poteva anche essere un cortigiano, ma era comunque protetto dal potere. Ora, con l’avvento del nuovo sistema borghese, egli perde la sua posizione privilegiata. Sempre più raramente proviene dall’aristocrazia o dal clero e può quindi godere di una rendita. È costretto a trovarsi un’occupazione, spesso di scarso prestigio, che gli sottrae tempo allo spirito, e non può più dedicarsi interamente all’otium. L’artista è quindi ormai declassato. Egli prova un profondo senso di rabbia nei confronti della società che non riconosce le sue capacita, le sue doti, il prestigio della sua persona. Egli in genere proviene dal ceto borghese, in cui dominano valori come l’utile, il calcolo razionale e la produttività, viene quindi visto come un individuo improduttivo. L’intellettuale si sente quindi respinto dalla matrice da cui proviene, questo conflitto accresce in lui la colpa di essere diverso. Questo profondo senso di colpa, l’inquietudine che ne consegue, ma anche la rabbia nei confronti della società è ciò che viene narrato da Chateaubriand François de René : «Vanamente dunque avevo sperato di ritrovare nel mio paese di che calmare l’inquietudine, l’ardore di desiderio, che mi seguono dovunque. Lo studio del mondo non mi aveva insegnato nulla, e tuttavia non avevo più la dolcezza dell’ignoranza […] Mi ritrovai ben presto più isolato nella mia patria, di quanto non lo fossi stato su una terra straniera. Volli gettarmi per qualche tempo in un mondo che non mi diceva nulla e che non mi intendeva. La mia anima, che nessuna passione aveva ancora logorato, cercava un oggetto che potesse legarla a sé; ma mi avvidi che davo più di quanto non ricevessi. Non si richiedeva da me né un linguaggio elevato, né un sentimento profondo. Non erao occupato che a rimpicciolire la mia vita, per metterla al livello della società. Trattato ovunque come uno spirito romantico, vergognoso della parte che sostenevo, disgustato sempre più dalle cose e dagli uomini, presi la decisione di ritirarmi in un sobborgo per vivervi totalmente ignorato. Trovai da principio abbastanza piacere in questa vita oscura e indipendente. Sconosciuto, mi mescolavo alla folla: vasto deserto d’uomini»! Ciò che viene narrato mediato le parole da Chateaubriand François de René  viene perfettamente rappresentato da Caspar David Friedrich nella sua tela  Viandante davanti al mare di nebbia. In quest’opera l’autore ci presenta un uomo di spalle vestito negli abiti borghesi della Germania. La posizione centrale dell’individuo costringe ad immedesimarsi con il viandante. La disposizione della figura umana al centro della scena di spalle permette all’autore di esprimere la dialettica tra cio che è vicio e finito e cio che è lontano ed infinito, tra l’esistenza umana e la realtà esterna che appare lontana e infinita.
Susanna Puglisi V A

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